Statuti del Comune di Montepescali (1427)
a cura di Ildebrando Imberciadori
ILDEBRANDO IMBERCIADORI (1902-1995)
Nacque a Castel del Piano (GR) da una antica famiglia di piccoli possidenti e media borghesia locale. Le origini antiche della Famiglia Imberciadori si possono rintracciare fin dal tardo ‘400 con alcuni antenati Gonfalonieri e Priori; altri avevano svolto cariche di Proposto e Architetto-Pittore; altri ancora erano stati Speziali e Bibliofili.
Dal 1912 al 1921 Imberciadori studiò, grazie ad uno zio Vicario del Vescovo di Montalcino, nelle scuole salesiane di Trevi, Alassio e Collesalvetti. Nel 1921 entrò nella Scuola Normale di Pisa e divenne amico di Enrico Fermi. Si laureò nel 1925 con una tesi dal titolo “Lettura dell’Adelchi di Alessandro Manzoni“, che discusse con Attilio Momigliano e Manara Vermigli.
Nel 1927 cominciò a insegnare Italiano e Latino in vari Licei Ginnasi della Toscana: a Grosseto dal 1927 al 1931, a Siena dal 1931 al 1934, a Pisa dal 1934 al 1939.
Nel periodo grossetano incontrò Rosella Turillazzi, figlia del medico Arturo Turillazzi, che sposò nel 1928 e dalla quale ebbe cinque figlie tra il 1929 e il 1943.
Notizie biografiche tratte dal SIUSA
—- § —-
Presentiamo gli Statuti del Comune di Montepescali a studiosi di storia, diritto e lettere che da tempo ne desideravano la pubblicazione. In un breve studio introduttivo noi abbiamo tentato di porli nel tempo e di indicare alcuni aspetti più interessanti e più fruttuosi per altro esame. Nella trascrizione abbiamo creduto opportuno rimanere fedeli alla varietà di scrittura, anche di una medesima parola, limitandoci a sciogliere i nessi e a risolvere le abbreviature: poche queste, frequentissimi quelli perchè il volgarizzatore scrive come il popolo pronunzia. Abbiamo applicato la punteggiatura quando ci è parso utile per una più agevole lettura e interpretazione, abbiamo posto accanto ad ogni capo la numerazione con numeri arabi per opportunità tipografiche. Nel compilare l’indice analitico siamo stati diretti da un criterio logico più che da uno scrupolo formale, segnalando le parole che abbiano, e quando abbiano, un significato interessante, indicandone la collocazione per capo, invece che per rigo, perchè pensiamo che soltanto nel contesto della “rubrica” la parola acquista il suo speciale significato. Un ringraziamento vivissimo all’Amministrazione Municipale di Grosseto, a Mons. Antonio Cappelli, Direttore della Biblioteca Comunale “Chelliana” di Grosseto, ai dirigenti la Sezione di Siena della R. Deputazione Toscana di Storia Patria, l’Accademia Senese per le Lettere e per le Arti per quanto hanno agevolato l’opera nostra.
Pisa – Giugno 1938 – XVI – Ildebrando ImberciadoriDopo questa presentazione seguono n. 6 dissertazioni del Prof. Ildebrando Imberciadori (Castel del Piano, 21 aprile 1902 – 14 aprile 1995), il quale con la massima chiarezza illustra agli studiosi, e non, l’importanza di questo storico documento, unico nel suo genere, da cui molti studenti universitari hanno attinto preziose notizie per conseguire la laurea in giurisprudenza. Le riflessioni trattate dal Prof. Imberciadori sono:
- Siena e la nuova redazione statutaria
- Novità nella redazione del 400
- Gli Statuti di Montepescali
- Loro interesse giuridico
- Loro interesse nella storia economica maremmana
- Loro interesse umano
SIENA E LA NUOVA REDAZIONE STATUTARIA
Questi statuti di Montepescali nacquero in quella generale redazione statuaria che si svolse, intorno al ‘400, nel territorio sottoposto alla giurisdizione della città di Siena e, di tutti, sono già stati definiti i “più belli”. Il bisogno di sottoporre a revisione l’opera legislativa trascorsa era generale, e urgente, verso la fine del secolo decimo quarto; e anche Siena se n’era resa interprete fin dal febbraio 1389, benchè, poi, nella pratica, lenta e, forse, non compiuta, sia stata la sua azione della quale, per di più, fino ad oggi, non conosciamo i frutti, se non per notizia.Il 22 febbraio 1389, il Consiglio generale della Campana delibera che le statuizioni del Comune in parvo volumine reducantur. “Infiniti” sono gli statuti, “infinite” le riformagioni, spesso, in contradizione; sopra una medesima materia, litigano più statuti e ordinamenti e riformagioni: quali in Cabella, quali in Biccherna, quali presso il Notaio delle Riformagioni, quali presso altri Notai. Altri statuti non si trovano più, e avvocati astuti ne approfittano per sostenere, secondo il proprio comodo, che i vecchi statuti hanno valore o viceversa. E così, per questa confusione contradittoria, le questioni diventano “immortales”, i cittadini spendono un patrimonio nelle liti, il diritto di Siena non si sa quale sia, e anche il danno politico è grave. Si propone, allora, di nominare “un esercito di giuristi” perchè, amputando il superfluo o contradicente, aggiungendo, raccogliendo e cassando, si componga un solo volume di Statuti che stia in Biccherna, alla vista di tutti. Di tutto questo vasto e complesso piano di revisione, ben poco era stato attuato fino al 1425, quando, volendo far conoscere al Capitano di contado i suoi poteri giudiziari, non gli si era potuto consegnare se non “el volume degli Statuti ultimamente dato al Giudice delle Appellagioni per mano di ser Giovanni di ser Antonio Gennari”, insieme a qualche altra sparsa deliberazione, presa nel giugno prossimo passato, contro i bestemmiatori, per esempio, e contro chi facesse “mali contratti”. Tutto il resto era ancora affogato nella molteplice contrarietà e varietà degli statuti, riformagioni e provvisioni, e bisognava assolutamente porre ordine: “il modo d’invenire era ancora differente e vario da molti antichi statuti”. Nell’attesa, il giudice doveva astenersi dal “conoscere” altri statuti finchè tutto non fosse ridotto “a un solo volume” e “uno medesimo modo fosse d’invenire”. Con probabilità, lo statuto recentemente presentato da ser Giovanni Gennari, riguardava la procedura e, in parte, il diritto civile, mentre tanto male rimaneva ancora nel diritto penale da render possibile che “per un medesimo delitto, uno fosse privato della testa, e un altro, punito in 25 lire, come alle volte si era visto”, per la “futilità e cavillazione degli avvocati in grande infamia della città e reggimento”. Contro tanto male gridavano le vittime, protestavano le persone di buon senso e i colti, sensibili Umanisti. E allora, nel 1425, il Consiglio della Campana ordina che siano eletti, dai Priori, dal Capitano di popolo e dai Gonfalonieri Maestri, Sei del Consiglio del Potestà perchè, insieme con loro, scelgano “Tre ammaestrati di ragione” (tra i quali deve essere un Dottore), e in essi, Sei e Tre, ammaestrati di ragione, sia rimesso che “tutti gli statuti senesi, così civili come criminali, e, generalmente, ogni riformagione e provvisione di qualunque condizione, rivedano e a tale forma reducano che ogni confusione, contrarietà, identità e multiplicità sia tolta via, e ogni cosa si reduca a uno volume”. Se qualche cosa volessero aggiungere, prima, la rimettano al Consiglio generale e, come questi delibererà, così eseguiranno. Questi “Nove” dovranno esser fatti radunare dai Regolatori e il volume da loro composto dovrà esser consegnato a tutti gli Ufficiali di Siena e, specie, “al Capitano che verrà”, proclamando nullo, dopo questo, ogni altro statuto. Ma mentre Siena si affannava intorno ai mali del suo diritto, anche i paesi del suo contado lavoravano e componevano i loro Statuti.
NOVITA’ NELLA REDAZIONE DEL ‘400
Per quel che sappiamo, alcuni paesi rinnovarono i proprii statuti fin dai primi anni del ‘400; altri prolungarono l’elaborazione per qualche decennio: tutti, però, sistemarono le proprie leggi secondo un criterio che, rispetto a quello dei primi statuti, aveva raggiunto la sua maturità. Quelli del ‘200, o concessi o concordati o imposti che fossero, ebbero origine, per quel che possiamo dimostrare con alcuni statuti del contado senese e in analogia con gli statuti di molte altre parti d’ltalia, in un motivo politico, con effetti, soprattutto, sul diritto pubblico: costituzionale e penale. Ma anche la parte costituzionale fu appena abbozzata e le norme del penale furono quelle strettamente necessarie ai bisogni momentanei e ambientali. Oppure, talvolta, il primo statuto fu scritto per la necessità di risolvere un grave problema economico-finanziario o sociale, per l’esigenza di fissare, subito, privilegi e franchigie; tal altra, per il proposito di avviare un regolamento di procedura e di diritto civile o per il desiderio di prescrivere norme intorno alla buona coltivazione dei campi e alla loro difesa, e così via. Ma, nel corso di un secolo, la materia giuridica si era straordinariamente arricchita sia perchè i rapporti s’erano complicati e moltiplicati sia perchè le comunità paesane avevano acquistato autonomia nell’opera legislatrice e amministratrice, soprattutto in materia costituzionale, economica e finanziaria. L’antica funzione del Rettore di Comune si era scissa in quella di Vicario, con competenza giudiziaria e rappresentanza politica e in quella dei Priori con potere distinto e insurrogabile di governo sulla vita comunale, e altri uffici erano nati. La partecipazione personale dell’elemento signorile si era fatta, di mano in mano, più discreta e limitata; il diritto penale aveva accentuato molto il suo carattere afflittivo, i reati possibili erano aumentati, la procedura, divenuta sempre più occhiuta e inquisitrice. Nel diritto civile, si erano sviluppati e perfezionati i diritti di libertà della persona, di proprietà e disponibilità dei beni; erano diminuiti, sempre più, l’iniziativa e l’arbitrio privato nel giudizio per far posto alla competenza del giudice, tecnico del diritto, e alla norma, provata a lungo dagli organi giudiziari ed elaborata dalla giurisprudenza di tutto un secolo. Il diritto e la procedura civile che, nella redazione dugentesca avevano posto strettissimo, ora, esigono il posto centrale con una serie di norme soddisfacenti i bisogni più e frequenti senza costringere gli interessati a ricorrere troppo spesso al mutevole diritto cittadino signorile o al diritto comune. Gli elementi compositori dei primi statuti erano stati: il signore e i rappresentanti del popolo. L’elemento tecnico, il giurista, mancava. Ora, invece, l’intervento del Notaio, giurisperito, nella redazione, porta precisione nella formulazione della norma, ordine nell’esposizione, e quel che era un insieme di norme mescolate e diverse, diventa un vero e propro statuto, un corpo giuridico, chiaro, distinto, armonicamente composto, tanto che al libro, così redatto, non è più lecito aggiungere o togliere nulla. Inoltre, l’intervento del giurista, mandato o scelto tra i Notai cittadini, dispensa la città dominante dall’intervenire direttamente e sul momento della redazione: fatto sapere che tutto può essere oggetto di norma, purchè non riesca a danno dell’interesse e dell’onore della città sovrana, questa si riserva di esaminare e approvare l’opera compiuta e di rivedere, anno per anno, quello che l’autonoma volontà del paese avesse creduto bene di deliberare, aggiungendo, modificando o derogando. Nella redazione quattrocentesca confluiscono, quindi: l’esperienza locale, l’opera giurisprudenziale, l’autorità politica, servile, rispettivamente, dagli Statuari paesani, dal Notaio, dai Revisori cittadini.
GLI STATUTI Dl MONTEPESCALI
Così nacquero, come un modello, gli Statuti di Montepescali, nel 1427. Motivi urgenti della nuova statuizione furono: quello di non intristire la vita comunale nel permanente litigio e, quindi, di trovare la norma e i mezzi per dare a ciascuno il suo; quello di riordinare l’amministrazione finanziaria, pericolosamente trascurata; quello di confermare e precisare e perfezionare le norme dirigenti l’economia agricola del paese, importantissima in un paese di Maremma come Montepescali; quello di modificare parte dell’amministrazione giudiziaria e di fissare un modo d’elezione di alcuni ufficiali di Comune. Per di più, la politica finanziaria di Siena era talmente variabile e vessatrice che se l’amministrazione locale non fosse stata più che attenta, risparmiatrice e ben organizzata, imminente sarebbe stato il pericolo di fallimento e di miseria. Al raggiungimento del nuovo ordine statutario si opponevano la mancanza di istituti o di norme adatte, il gran numero di ordinamenti aboliti per desuetudinem. La materia giuridica per i nuovi statuti avrebbero dovuto offrirla, nei limiti convenienti e opportuni, i vecchi statuti locali e le altre costituzioni del comune, cui la volontà degli Statutari per opportuna consilia electi et deputati avrebbe aggiunto nuove norme giuridiche richieste dalla presente realtà comunale. Gli Statutari sono: il Notaio, cittadino senese, ser Naddo Petri, di Montalcino (che sette anni prima aveva già ordinato gli Statuti di Grosseto) e tre Uomini di Montepescali: Intendem ser Egidii, Nello Nicolai Nelli e Antonio di Simone. Nel luglio 1427 I’opera era compiuta, divisa in quattro distinzioni: “Que ad gubernationem Communis pertinet, continet prima distinctio. Indicat secunda quo ordine agitetur in litibus et quomodo iudicia promulgentur. Tertia delinquentibus penas imponit. Restant complura ad regimen Communis necessaria, que in quarta et ultima distinctione, tamquam extraordinaria, subiungemus“. Il lavoro si considerò come opera in sè finita, non modificabile, pur sapendo, primi gli Statutari, che non a tutto avevano provveduto e che, in futuro, variando le condizioni di vita, altre norme avrebbero dovuto essere create. Ma gli Statutari, mentre danno licenza e autorità al Consiglio e a la Radocta “nel quale sta tutto el reggimento et governo del Comune” di poter aggiungere quello che parrà “necessario e bisognevole”, proibiscono di smuovere ciò che è stato composto e ordinato. In caso che una nuova legge dovesse contraddire allo Statuto, prima, bisognerà eseguire l’atto di deroga da parte del Consiglio, con maggioranza di tre quarti, e, poi, dar valore alla nuova norma, previa approvazione dei Regolatori, annotazione del Notaio dei Regolatori sull’annullamento della norma statutaria e sulla validità della nuova norma, che doveva esser scritta non nel libro degli Statuti, ma in un libro di membrana, a parte. Del codice di Montepescali sono già state scritte queste parole: “Di tutti gli Statuti del secolo XV, che si sono conservati nelle nostre terre, è sicuramente questo il più bello, più compiuto, più importante. Gli articoli che lo compongono, sono numerosi, molto particolareggiati e scritti in bella forma italiana. La parte che vi presero direttamente, nel comporli, tre uomini di Montepescali, e il bisogno esplicitamente dichiarato di disciplinare ex novo tutta la materia legislativa del castello ha dato a questo codice, indubbiamente originale, un suo particolare valore e una personalità distinta tra i numerosi confratelli.” Ora, questo giudizio, secondo noi, in parte va corretto, o limitato; in parte, accresciuto, sviluppato e documentato.
LORO INTERESSE GIURIDICO
Parlare, in senso stretto e con riferimenti particolari, di una originalità giuridica sarebbe azzardato e, forse, non sarebbe possibile portarne la prova o conveniente tentarla. Sarebbe un po’ come pretendere di distinguere, lontano dal punto di confluenza, le acque del fiume principale da quelle del suo affluente. Però, poichè, come tutte le similitudini, anche questa è troppo presuntuosa, cercheremo di vedere e distinguere qualcosa, senza escludere, si capisce, che altro possa essere, o per intuizione o per documentazione, scoperto come elemento originale. La nostra indagine sarebbe stata agevolata di molto se, mancando le precedenti statuizioni locali, avessimo potuto, almeno, confrontare lo statuto di Montepescali col possibile statuto unico di Siena, promesso dalle deliberazioni del Consiglio generale della Campana, nel 1389 e nel 1425; ma le ricerche nostre e di altri non hanno dato, almeno per ora, risultato. Certo è che gli statuti di Siena completano quelli di Montepescali e solo quando essi tacciano, è lecito ricorrere al diritto comune, mentre, altrove, per esempio, all’Abbadia S. Salvatore, che è pur sotto giurisdizione senese, il ricorso al diritto comune è immediato. Siena, poi, è intervenuta nell’amministrazione e nel diritto finanziario di Montepescali, non solo imponendo tributi a suo arbitrio ma anche assicurandosi che le norme tributarie emanate dagli organi legislativi locali non danneggiassero gli interessi suoi e dei suoi cittadini. Il diritto penale è, nei suoi poteri più importanti, tolto alla competenza locale: i malefici “enormi” e quelli che si commettono “con effusione di sangue” non possono essere oggetto di norma locale nè di competenza del Vicario, ma devono essere subito e semplicemente denunziati agli organi competenti di Siena: al Maleficio e all’Esecutore della Giustizia e, naturalmente, anche quella parte legislativa penalistica sui reati minori, lasciata alle competenza degli organi locali, dovette intonarsi, nel criterio di giudizio, con quella cittadina per evitare assurde diversità. Nella procedura, come si può tentare di scorgere e distinguere un eventuale apporto indigeno, dopo che, nel corso del secolo XIV e prima ancora, l’arbitrio e l’iniziativa privata, locale e variabile, hanno ceduto il posto alla norma certa, elaborata da tanta dottrina di giurisprudenza, interpretata e applicata da uffici giudicanti, ormai regolari e specificamente competenti. Ugualmente, come è possibile discernere con sicurezza eventuali originali istituti nel diritto civile se, oltre tutto, Siena da più di un secolo ha avuto il diritto di interferire anche in materia civile, nel testamento e nella dote, nei contratti e nei beni, sui mezzaiuoli e sui cittadini “salvatichi”, con turbamento certo nel diritto di proprietà e nei diritti personali, e cosi via. Prescindendo dalle molte disposizioni amministrative di non dubbia impronta locale, è meno azzardato e arduo il credere che nel diritto agrario e nel diritto costituzionale possano rilevarsi elementi originali: nell’uno, perchè l’antica e sicura floridezza del comune di Montepescali, prima della sua sottomissione a Siena, dovette essere conseguenza della saggia, adattissima, peculiare legislazione agricola; nell’altro, perchè Siena compì un immediato ed unico, si può dire, intervento nella costituzione quando nei capitoli di sottomissione, impose il Vicario come amministratore della giustizia e come suo rappresentante, nel paese che si sottoponeva alla sua giurisdizione. Degli altri uffici costituzionali esistenti o dell’eventualità che altri uffici potessero esser creati dagli organi legislativi locali, non si curò, salvo che, in pratica, non si mostrassero dannosi al suo interesse. Tutt’al più, obbligando la denunzia dei reati maggiori, costrinse a creare un nuovo ufficiale: il Sindaco dei malefizi.
LORO INTERESSE NELLA STORIA ECONOMICA MAREMMANA
Montepescali dista da Grosseto, sulla via di Siena, una quindicina di chilometri. E’ situato in alto, in posizione panoramica: colline chiare, poggi macchiosi, piana immensa, poderi, paesi, la città di Grosseto, la pineta e il mare Tirreno stanno dinanzi ai suoi occhi. Quando già la pianura si vela d’ombra, il sole incendia ancora il rosso mattone delle sue case e si riverbera sui vetri delle finestre. Olivi, olivi, olivi, fino al piano e tutto intorno, rivestono la calda collina, dalla parte di mezzogiorno e di ponente, mentre, a levante, boschi di lecci e querci si stendono a perdita d’occhio tutti verdi e foschi. Vicino a un leccio, nero, enorme, vasto, al tepido sole dell’ultimo marzo, stanno bestie nere, incavate, moge; un toro, più nero, immobile, in mezzo al branco guarda con occhio intontito e calmo. Solo le vacche hanno occhi espressivi, più grandi, strani, come spiritati, per la fame e per l’istinto amoroso: accanto alla madre muove la coda e gli orecchi, lentamente, un vitellino tutto rosso, nato da pochi giorni. Ma, fra poco, torme di puledri galopperanno nella prateria primaverile, veloci e ritmici, nell’impeto della giovinezza. D’estate, campani rochi si sentono vagare per la terra macchiosa dove branchi di bestie brade pascolano e si fortificano all’ombra e al sole della Maremma ardente. La pianura vicina al poggio è molto fertile, come si vede a prima vista, dall’imponente sviluppo delle piante, e canali e fosse e strade la solcano e l’alimentano da ogni parte. Montepescali fu terra privilegiata: i suoi poggi le davano legna per il fuoco e legname per le costruzioni; ta sua collina, l’olio e il vino; la sua pianura, i pascoli e il fieno per le sue bestie, i cereali per il pane suo e di altri, il lino per i suoi tessuti, la lana, tosata due volte l’anno, per i suoi vestiti; e il mare è vicino. Montepescali potè vivere, veramente, nel corso dei secoli tempi felici. Ma, quando nascono gli statuti, il male della Maremma, solo oggi scomparso, l’ha già preso: i circa 2000 abitanti del due-trecento sono scesi verso i 1200, finchè, gradatamente, si riduranno ad appena 200 “poveri e miserabili, rozzi e inculti”. Appunto la parte degli statuti che tratta dell’economia paesa è molto interessante, è quella che, forse, riflette meglio l’antico volto di Montepescali e ne spiega la floridezza. L’importanza di questo statuto nella storia economica appare evidente quando si confronti la diagnosi del male maremmano, agricolo-idraulico, fatta da un grande competente della bonifica maremmana, con la serie organica delle norme statutarie, e ci si accorge come tanto male fosse, preventivamente, combattuto, con intelligenza e preoccupazione particolare, dallo statuto di Montepescali. Diceva infatti lo Ximenes: “Il vizio fondamentale procede sicuramente dallo stagnamento e putrefazione delle acque, dal pessimo regolamento dei fiumi e canali maestri della bassa campagna, dalla non espurgazione di laghi, paduline, scoli maestri e macchie impadulite. La trascuratezza è tale che al tempo di primavera molti terreni si trovano ancora inondati dalle acque invernali; gli scoli maestri si trovano interrati nelle loro foci o ripieni nei loro alvei o totalmente assediati dalle masse di erbe palustri che o negano ogni discarico o lo somministrano stentatissimamente alle acque piovane dei terreni maremmani; nei terreni boscosi e macchiosi si sono stagnate le acque perchè la macchia bassa è talmente cresciuta che serra ai venti ogni passaggio. I pascoli battuti indifferentemente dal bestiame grosso e poi da quello minuto si riducono in condizioni deplorevoli; lo sfrenato calpestio delle bufale, delle cavalle, delle vacche vaganti con ogni licenza va sempre riempiendo gli alvei dei canali appianandoli al pari della campagna; l‘orme del bestiame impresse nei tempi di pioggia e di umidità, ne opprimono e conculcano talmente l’erba già nata che impediscono il nascimento ancora della nuova. Infine, uno svantaggio dell’agricoltura maremmana è che essa si riduce alla sola coltivazione dei grani senza potervi mescolare la cultura dei mori, degli uliveti, delle vigne, dei granturchi. Queste le principalissime cause naturali della malsanità e desolazione maremmana.” Ora, in ogni statuto del tempo ci sono, naturalmente, norme che regolano la polizia campestre e impongono anche la coltivazione di certi generi di prima necessità; ma in Montepescali, data la particolare condizione geografica del territorio, non si tratta solo di questo e di reprimere o prevenire i danni dovuti alla delinquenza personale o all’incoscienza animale, sibbene di un vero e proprio governo agricolo, secondo norme precise di diritto, che limitano i diritti e sostengono i doveri della proprietà privata. Si devono rivedere vie, ponti e fonti, due volte l’anno, di maggio e d’agosto; d’agosto e settembre, è fatto obbligo ai possessori di “rimunire, mondare e acconciare” le fosse scavate per sanificare i campi seminati; proibito fare steccaia o rattenuta d’acqua nel fiume Bruna o derivare acqua dalla fossa maggiore del piano se non per necessità di mulino; prescritto acconciare la fossa maestra, secondo la volontà dei Viari, ai possessori del terreno, per quanto essa attraversa o rasenta il possesso; se un vicino vuol fare la fossa a confine con un altro, non solo lo può, ma il confinante, anche contro la propria volontà, è obbligato a pagare metà della spesa. Sono tredici le fosse che hanno nome pubblico e confluenti nella fossa maggiore del piano, e presuppongono tutta una rete di fossatelli e canalette per lo scolo delle acque. E’ difficile trovare espressioni così precise e vive come quelle che sono nello statuto di Montepescali nel prescrivere la pulizia di una fossa: “si deve votare, sgomberare et mondare sì che bene stia.” Votare è restituire alla fossa il suo volume; sgomberare è portar via la robaccia: sassi, terra, pattume che erano nella fossa e che, se lasciati sul ciglio della fossa stessa, potrebbero ricaderci; mondare è ben ripulire, esattamente e simmetricamente, i fianchi e il fondo, è sterpar la macchia delle rive, si, che alla fine, al colpo d’occhio dei lavoranti e del Viario sorvegliante, si riconosca che il lavoro “sta bene” o, come altrove dice lo statuto, “sta bene in punto” e “l’acqua liberamente abbia il suo corso et esca”!. E come è obbligo di “approdare” certe bandite preziose, da parte di tutta la comunità agli ordini dei Priori, perchè il fuoco, alle volte, non le danneggi d’estate, così tutta la comunità è obbligata, agli ordini dei medesimi Priori, a metter fuoco, d’agosto, nei luoghi boscosi e selvatichi, perchè la macchia non avanzi nè s’infoltisca tanto da “serrare ai venti ogni passaggio.” E’ proibito, nel tempo estivo far bere i porci e i bufali nella fossa maestra e farli passare per i campi; anzi è proibito lasciarli andar per il piano, dal 1 maggio al 15 agosto, perchè devono stare dentro certi confini, segnati dai Priori e dal Consiglio minore; proibito far pascere le bestie in determinate zone, proibite certe altre zone ai bufali, dal 1 maggio al 1 ottobre, per non recar danno alle fosse. E’ obbligo, infine, piantare olivi, innestare alberi, per iniziativa e dovere dei Priori, nei mesi di febbraio e marzo, seminare una data misura di terreno, fare l’orto, piantare la vigna. Sui poggi boscosi difendersi dall’inselvatichimento e dalla bestia feroce; sulla collina solatia coltivare alberi domestici; mantenere sano il piano per garantirsi una buona salute, difendere le faticose opere di mantenimento ed assicurarsi il pane, la carne, il bestiame e ogni altro elemento necessario alla vita, sono affidati, come uno dei doveri supremi, al più alto ufficio del Comune.
LORO INTERESSE “UMANO”
Senza disconoscere l’importanza anche d’altro genere storico offerta da questo documento, particolare interesse presenta la sua redazione “formale”. Il merito può essere, in parte, dei tre statutari paesani che portano nella redazione esperienza e preoccupazione personale, ma con più probabilità, spetta a Tommaso Petroni di Siena, “eletto e deputato” a scrivere in lingua volgare l’opera statutaria. Il Notaio suggerisce precisione giuridica alla norma, dispone e ordina la materia; i paesani portano materia viva per il lavoro legislativo; il nostro volgarizzatore è riuscito a comporre una prosa non solo precisa ma anche animata, dando, spesso, alla norma, concretezza di persona, stendendola secondo un criterio di pratica efficacia, pervadendola della sua umanità. Lo statuto non è solo corpo di precetti, ma guida e insegnamento per la persona interessata: preciso, chiaro, particolareggiato perchè un popolano capisca e osservi, e anche se una parola del linguaggio giuridico può non essere, da sola, comprensibile, la frase che segue la illumina in pieno. In questa redazione c’è particolare intesa tra il giurista e l’uomo. Il volgarizzatore non si limita a trascrivere in lingua italiana le formule giuridiche nella successione dei negozi giuridici, ma vede e sente le cose stesse, da cui la formula nasce, la natura viva e parlante; egli scrive, dictante mundo, ascoltando e interpretando la realtà attraverso le osservazioni e i suggerimenti e i desideri e le preoccupazioni e la sensibilità della gente, viva, come erano nella commissione elaboratrice, gli statutari locali: uomini, forse, senza la minima istruzione ma viventi nel popolo, popolani essi stessi, interessati in vita e in morte alla vita del paese di cui in quel momento stavano dettando le leggi. Così, il popolo entra nella redazione non solo con la sua esigenza di chiarezza formale, ma anche con la proprietà intima e immaginosa del suo linguaggio, colta e fermata dallo statutario volgarizzatore. L’accusa, di mancanza di “umanità”, che gli Umanisti muovono, contro la prosa giuridica del ‘400, è, in gran parte, giusta, se rivolta alla prosa dei giurisperiti, ma non a quella dei volgarizzatori, in genere, a quella del volgarizzatore di Montepescali, in specie. Ogni distinzione è divisa in tanti capitoli o rubriche non numerate, i cui titoli sono trascritti in un indice, anch’esso non numerato. Fa parte dello statuto anche un “sommario di quello hanno a fare”, i principali ufficiali di Comune, chiuso da una breve preghiera, in latino, di ringraziamento, d’augurio e di soddisfazione. “Le rubriche sono in rosso e le iniziali di ciascun articolo, rosse e celesti. finemente ornate”. Si custodisce nella Biblioteca “Chelliana” di Grosseto. La vecchia formula del principio d’ogni capitolo statutario “abbiamo costituito e ordiniamo” che traduceva il “constituimus et ordinamus” latino, è sostituita, quando è possibile, dalla parola logicamente più importante: quella che accenna l’argomento della norma: fuoco, … selva, … pescatori, … sangue, … Priori, … Vicario, … in modo da agevolare la ricerca di quel che interessa. Nella redazione di una semplice norma, anche procedurale, una parola, talvolta, provoca la nostra intima attenzione: questa, per esempio: “contra e contumaci tutte le ragioni gridano”: che ci fa riflettere al carattere della contumacia: la vigliaccheria dell’imputato che suscita lo sdegno della vittima; o l’altra: “il creditore tenga l’animale del debitore, a lui dato in tenuta dalla corte, per tempo di XV dì o tanto quanto si starà a darla in pagamento se tanto el reo pugnarà a pagare e sosterrà che si adiudichi per lo secondo decreto”: che ci fa riflettere all’ostinazione di chi non vuol pagare e alla esasperazione di chi deve riscuotere. Sono espressioni che trovano spiegazione nel fatto che, per il popolo, la giustizia non è tanto azione di legalità quanto esuberante passione d’interesse. Per avere un’idea dell’efficacia rappresentativa ed espressiva di tutta una norma del costituto, si veda, per esempio, l’articolo 18 della distinzione terza: – Di pigliare e malifattori et de la pena di chi non traie a pigliarli.- “Se assalimento o offesa in persona, con effusione di sangue o senza, omicidio, furto o robaria o alcuno altro enorme delitto fusse commesso in Montepescali per alcuna persona, et rumore ne nascesse, ciascuno al romore coll’armi sue debba trarre”; dove, con l’accostamento delle due parole, di cui, l’una segnala il pericolo, l’altra, prescrive il riparo: al romore con l’armi sue. La norma, preoccupata dalla gravità del delitto, esprime bene l’immediatezza e l’esecuzione del comando. E la frase seguente – ciascuno debba pigliare el malfattore et menarlo preso et ne la forza del comune di Siena preso el debba mettere -, con la ripetizione delle forme dei verbi “pigliare e prendere” come stringe le mani e i piedi del malfattore, ricercato e catturato dalla furia del popolo! Al suo confronto apparisce ben fredda la medesima disposizione, nello statuto volgare di Siena “de la pena de’ contadini che non pilliano li malfattori”. “Se li uomini d’alcuna comunanza del contado di Siena pilliaranno alcuni malfattori, siano tenuti et debiano essi malefattori o vero malefattore, infra el terzo dì, presentare et consegnare a misser lo Potestà di Siena o vero ne le forza del comune di Siena”. Per veder ancor meglio come un medesimo precetto, nei medesimi anni, poteva esser sentito o redatto in modo ben diverso, mettiamo a confronto un capitolo dello statuto dell’Abbadia S. Salvadore (1434) col rispettivo di Montepescali, riguardante la figura del Messo e le sue mansioni. Quello dell’Abbadia dice: “il messo possit etiam et teneatur denumptiare damnum dantem cum propriis bestiis“.Quello di Montepescali, invece, dice: “et anco quando dal castello di Montepescoli si vedessero bestie che danno dessero in beni di comune o di singolari persone, subito debba andare a vedere di cui sono tali bestie et esse menare al castello, se possibile li sarà, o veramente ritrovare di cui sono et esse denunziare al Vicario“. Ora, il contenuto del comando è lo stesso: si tratta d’impedire che un possessore patisca danno per causa di bestie: ma, il precetto nello statuto dell’Abbadia è fermo, inerte. Quello dello statuto di Montepescali è vivo perchè veduto in atto, nella persona dell’esecutore spinto, avviato e guidato nella movimentata esecuzione, ed è, a parer nostro, più bello. Dalla norma è richiesta al messo una sensibilità particolare nella vigilanza: anco quando si vedessero …; nella prontezza dell’obbedienza al dovere: subito debba andare …; nella diligente e infaticata ricerca del colpevole: vedere di cui sono, menare al castello o ritrovare di cui sono …; nella regolarità della denuncia. Accortezza nel vigilare e nello scoprire, prontezza e infaticabilità nell’operare in conseguenza, costituiscono, appunto, l’anima del precetto. Se vuol compiere tutto il suo dovere anche il Messo dell’Abbadia deve fare lo stesso, ma solo lo statuto di Montepescali lo rivela e suggerisce. E se è vero che il diritto vive anche in quanto è bene applicato, non sembra priva di significato una redazione pratica come questa. Il carattere “umano” di questi statuti è rivelato anche in ritratti psicologicamente espressivi ed eloquenti. Prendiamo, come primo esempio, quella pagina nella quale i compilatori spiegano i motivi gravi che hanno consigliato la creazione di una nuova magistratura comunale: quella dei Due Massari sopra le rendite di Comune. “Perchè la ragione delle cose passate fanno ammaestrati gli uomini de le cose avenire, et già fu tempo, che, per mala cura, essendo tutte l’entrate del Commune ne le mani del Camarlengo, et come e denari di qualunque cagione venivano, a chi prima venivano, si davano, et non facendone conserva, venivano e termini di dover pagare le tasse et tassagioni al comune di Siena et anco el Palio a l’Opera Sancte Marie, e denari del sale a la dogana, e salari de gli officiali, a la fine del tempo de gli offici loro, ai quali termini, el più delle volte, la borsa del commune si trova votia, et per esse cagioni, el Commune si soctometteva a l’usure et in fiorini quattromilia, o circa, poco tempo è che ‘l Commune di Montepescali si trovò in debito, et con grandissima pena et grandi disagi in longo tempo se ne usci’, fu ordenato …“. Chi scrive mette mano alla penna con un sospiro come chi ricorda un fatto penoso della sua vita, e lo rievoca ad ammaestramento proprio e degli altri. Prima, è ben individuata la causa: il disordine finanziario fu dovuto alla leggerezza del Camarlengo e alla noncuranza comune: “i denari, di qualunque parte venivano, a chi prima veniva, si davano” (e la frase, con le parole – da qualunque parte – e – a chi prima venivano si davano – che non hanno nè volto nè nome, esprime bene l’irresponsabililà del Camarlengo). Poi gli effetti: la paurosa sorpresa di dover pagare tutte le più grandi spese di comune: tasse, tassagioni e anche il palio, il sale, i salari, mentre la borsa del comune era vuota. L’efficacia dell’esposizione consiste nell’aver ben messo a contrasto l’obbligo assoluto e urgente del pagamento e l’assoluta impotenza del comune a pagare, con una immagine concreta, personale e di percezione immediata: si doveva pagare ma la borsa del comune era vota. E allora bisognò trovare il denaro a prestito, con umiliazione, con danno grave: il comune si sottometteva all’usure. Gli statutari citano l’ultimo caso, il più fresco e doloroso, che tutti ricordano: – di 4.000 fiorini il comune si trovò in debito – per un collasso finanziario, improvviso come un crollo, ma che si preparava da lungo tempo, nella incoscienza amministrativa del comune. Ed ecco che tutto il comune, sentito come persona singola, dopo la colpa, si sottomette alla croce delle sofferenze morali e dei sacrifici materiali. E che lunga espiazione! “Con grandissima pena e grandi disagi, in longo tempo se ne uscì …” Che respiro ma che sospiro! Lo statutario è riuscito così a tracciare un dramma collettivo, chiaro per quanto affannoso, rilevandone i tre tempi: peccato, pena, espiazione. Un altro esempio può essere il preambolo alla elezione dei Paciari. La pagina è tutta animata dal doveroso, urgente, assolutamente necessario amore per la pace, ma chi le dà questa animazione è la considerazione psicologico-morale del suo principio. “Perchè la fragilità umana è tanta che spesse volte c’inchina a offendere l’un l’altro et chi è offeso desidera vendicarsi et la vendetta fatta trae le persone a fare continue, peggio et maggiore offesa inverso chi s’è vendicato et così, in infinito verrebbesi a multiplicare in grandi inconvenienti, se, con utile e salutevole rimedio non si provvedesse, a tali casi obviare, abbiamo ordenato …“. Della “vendetta” sono rilevati perfettamennte i due caratteri: l’intensità della progressione e la gravità dannosissima delle conseguenze, tanto più penose quanto più futili e facili le cause. L’offesa provoca il desiderio di vendicarsi; ma la vendetta fa subito divampare i mali sentimenti e trascina le persone a farsi offese, senza tregua, in un crescendo sempre peggiore perchè il risentimento si deforma in odio, il malanimo si peggiora nella cattiveria, la punizione degenera nella crudeltà. Eppure la scintilla di questo incendio, l’offesa, è nata dalla fragilità umana, cioè, da un vizio comune a tutte le creature umane; l’offeso di oggi può essere l’offensore di domani. Dunque, perchè offendersi? Ed ecco come il legislatore prima di giungere a reprimere la violazione della pace con la minaccia della sanzione, tenta e spera di raggiungere lo scopo con la persuasione del buon senso e del sentimento umano. Altri esempi si potrebbero portare, di larga comprensione umana, come quella pagina della distinzione terza alla rubrica 35: – de la pena di chi va di notte per la terra – ben differente dalla pagina analoga di altri statuti, cittadini e paesani, per lo spirito singolare dell’esposizione. La norma considera le ore della notte come ore di quiete, di sicurezza, di riposo, dopo una giornata di lavoro chiusa cristianamente tra due suoni di campana. Ma, scritta la consueta disposizione proibitiva, lo statutario pensa subito alle varie e necessarie eccezioni, e sembra che si affatichi nella ricerca, per non dimenticare nessuna delle eventuali necessità che costringano ad uscire di notte. Tutto il paese, come una grande famiglia, vive nella mente dello statutario, paternamente preoccupato, e la notte sembra scomparire sotto l’impulso vivace del movimento di persone angosciate o pensose per i beni più cari: malati, moribondi, creature che nascono, pane, olio, vino, bestie. Questi caratteri concreti, umani, non esclusivi ma solo rilevanti negli statuti di Montepescali, sia pur non necessari per un’opera di puro diritto, sono quelli che possono aiutarci a definire meglio lo statuto locale, in genere: non solo corpo di leggi che prescrive e proibisce, ma guida, consiglio e ammaestramento, testimonianza degli errori, delle preoccupazioni e della saggezza di una popolazione, rilevate ed espresse con sensibilità come di singola persona: documento storico di prim’ordine.